venerdì 23 novembre 2007

Il grande Guney




Di Goffredo Fofi

Il cinema turco e quello turco-tedesco continuano a stupirci con opere mature e sincere, che ci fanno invidia messe a confronto con le nostre, scialbe e recitate. Al cinema dei sentimenti finti c’è per fortuna qualcuno che reagisce mostrandoci sentimenti veri, al cinema degli effetti speciali qualcuno che reagisce detestando ogni effetto e prediligendo ancora, nonostante tutto, il personaggio-uomo e l’intervento nella storia. E’ un gran bel film, quello di Fatih Akin “Ai confini del paradiso”, che è possibile vedere in questi giorni sui nostri schermi, ed erano notevolissimi altri film turchi recenti. Non solo Pamuk, dunque, ci riserva quel grande paese pieno di contraddizioni, e non solo Ozpetek, troppo furbetto per il lettore o spettatore esigente. Ma non è di loro che voglio parlare, e neanche di Akin. Voglio approfittare della voga turca per ricordare un grande regista dimenticato, cui qualche festival, invece di perder tempo con i soliti spompati Wenders, dovrebbe dedicare una retrospettiva e un convegno. Nel risveglio mondiale del cinema negli anni 60 e 70, prima della lunga agonia, anche la Turchia ci stupì con un autore originale e possente. Yilmaz Guney, dalla biografia insolita e disperata. Figlio di contadini curdi, operaio dai cento mestieri, scrivano pubblico, si pagò gli studi in legge ad Ankara e si fece militante politico comunista, finendo più volte in prigione. Ma tentò il cinema come attore, e diventò rapidamente un divo dei film d’avventura e polizieschi prima di esordire come regista e, più tardi, come produttore delle proprie opere, quando comprese che per raccontare quel che voleva come voleva era necessaria molta indipendenza, conquistata abilmente continuando a proporre, accanto ai suoi, dei normali film di genere diretti da amici e colleghi. Nel 1970 Umut (La speranza) si impose al Festival di Berlino vincendo l’Orso d’Oro e finendo su più schermi europei, ma nel ’71 ci fu in Turchia un ennesimo golpe e finì di nuovo in galera. Ne uscì dopo due anni (dedicati al lavoro letterario)e riprese a girare, ma in una rissa scoppiata in esterni nata perché un giudice irrideva lui e i suoi accusandoli di essere dei comunisti dal portafoglio pieno, il giudice morì e Guney fu condannato a 19 anni di carcere. Caso unico nella storia del cinema, Guney riuscì – forte della sua fama e anche della sua conoscenza della legge- a dirigere film dal carcere! I suoi collaboratori – quando fecero i loro film si constatò che erano solo degli esecutori-discutevano con lui le lavorazioni in carcere e provavano con gli attori. Nacquero così tre capolavori, Il Gregge, Dusman, Yol (il primo e il terzo distribuiti in Italia). Film asciutti, corali, vasti, appassionati reperti sulla Turchia dei pastori, dei poveri, dei marginali, influenzati soltanto dal grande cinema terzomondista teorizzato in quegli anni da Glauber Rocha e da altri. Ed ecco un altro colpo di scena nella sua vita: la fuga dal carcere(che fu organizzata tra gli altri, pare, anche da Gian Maria Volontè). A Parigi Guney poté dirigere un ultimo film, La rivolta, ambientato in un carcere minorile, che deluse perché Guney, turco e curdo fino al midollo, aveva bisogno di ben altro contesto per esprimersi. E venne la morte per cancro, nel 1984, a 47anni appena. Su Guney hanno scritto in Italia due benemeriti: Umberto Rossi ed Emanuela Martina, ma in anni lontani, e si vorrebbe ne scrivessero ancora, ne riproponessero le opere per nuove generazioni di spettatori non addormentati dalla corruzione pubblicitaria e mediatica, dalla bruttezza dei tempi e dalla banalità (o stupidità) della critica.
L'autore di questo articolo è Goffredo Fofi ed è stato pubblicato su Filmtv n.47 .

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